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Se uno così si uccide noi come faremo? Daria Bignardi #9

Ritorna l’appuntamento con la Rubrica barbarica, questa settimana Daria Bignardi scrive un’accorata riflessione sulla scomparsa dello scrittore David Foster Wallace, suicidatosi la scorsa settimana.
Per rimanere nel clima di grandi nomi contemporanei, l’intervista a un grande regista contemporaneo, Julian Schanabel, che con il suo ultimo film ” Lo scafandro e la farfalla” è riuscito ad offrire dei nuovi punti di riflessione sulla tematica della malattia e che ha fatto vincere a Schanabel il premio di miglior regista lo scorso anno a Cannes (2007).

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mercoledì, 17 settembre 2008

Se uno così si uccide noi come faremo?

Dopo il suicidio di David Foster Wallace, ci resta una domanda. Senza risposta

Quando domenica pomeriggio ho saputo che David Foster Wallace era stato trovato impiccato a casa sua, in California, mi sono sentita come se fosse morto il più brillante dei  miei amici, il più lucido, geniale, il più simpatico, bravo, spiritoso, il più talentuoso e divertente: quello dal quale mai e poi mai avrei potuto aspettarmi niente del genere. Mi sono sentita persa. Ho telefonato al mio compagno di banco del liceo che il giorno prima avevo rivisto a Ferrara: avevamo parlato dei film di Venezia, dei nostri vecchi compagni che non vediamo da trent’anni, del diario di Jacovitti del 1976 con sopra scritte le canzoni di De Gregori e De André.
Non era un caso se io e Bobo eravamo stati così amici: avevamo gli stessi gusti, anche se lui era molto più raffinato di me, che sul diario ricopiavo anche qualche canzone di Cocciante mentre lui già ascoltava i Pink Floyd e Peter Hammill. Non avevamo parlato di libri, ma quando ho letto su Internet di Wallace l’ho chiamato subito, senza sapere se avesse mai letto qualcosa di suo: mi ha risposto sconvolto che aveva saputo e che non riusciva a pensare ad altro. Che dopo aver finito di leggere Infinite Jest, il capolavoro di 1.400 pagine di David Foster Wallace, si era sentito perso perché avrebbe voluto non finisse mai. Io avevo pensato la stessa cosa leggendo i racconti della Ragazza dai capelli strani, che Minimum fax doveva ripubblicare il mese prossimo: «Questo è genio assoluto».
Leggere Wallace voleva dire che tutto il resto poi ti sembrava una pappetta, perché le sue descrizioni, i dialoghi, i personaggi, le storie erano al tempo stesso follemente originali e normali. Ci ritrovavi tutto: lo sguardo stupito, curioso, angosciato su questo presente folle che avevi anche tu, sulle dipendenze, la televisione, il potere, i punk, gli omosessuali, l’amore. Solo che lui sapeva raccontare storie e descrivere personaggi come nessuno. David Foster Wallace era uno di noi, classe 1962. Aveva avuto un successo pazzesco, anche se non era tipo da classifiche, ma continuava ad andarsene in giro con l’aria da Lebowski, la bandana annodata sui capelli lunghi e la faccia facciosa da nerd americano. Aveva scelto di insegnare in una piccola facoltà in California, niente di prestigioso, pur di starsene per i fatti suoi con sua moglie e la sua scrittura. La sua ultima raccolta di romanzi brevi, Oblio, aveva quattro anni.
Quando si uccide uno scrittore, uno scrittore unico come David Foster Wallace, il mondo trema. Primo Levi, Cesare Pavese, Ernest Hemingway, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Mishima… tutti grandi. Ma David era diverso. Era uno che ci provava, che non indulgeva nella sofferenza, nell’eccesso, nell’assolutismo, uno che sapeva scrivere ma sapeva anche ridere. «Era un cazzone come me», ha detto il mio amico Bobo, sul punto di piangere. Se uno come David Foster Wallace si ammazza, come faremo noialtri ad andare avanti?
Forse ha scoperto che era malato, e non ha voluto soffrire. È l’unica spiegazione che posso accettare. Accidenti, David.

di Daria Bignardi da Vanity Fair n° 38/2008

 

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